L’articolo originale è apparso sulla rivista di Jane Austen Society of Italy “Due pollici d’avorio”, numero 9 (ottobre 2017), pagg. 17-25. Per richiedere l’intero numero, scrivere a info@jasit.it.
«Un ballo in una città di provincia; alcune coppie che si incontrano e si tengono per mano in una sala dove si mangia e si beve un po’; e, come ‘catastrofe’, un ragazzo che viene umiliato da una signorina e trattato con bontà da un’altra. Nessuna tragedia, nessun eroismo. Eppure, per qualche motivo, la scenetta ci commuove in modo del tutto sproporzionato all’apparente banalità. Il comportamento di Emma nella sala da ballo ci ha permesso di capire quanto riguardosa, tenera e spinta da sentimenti sinceri si sarebbe rivelata nelle crisi più gravi della vita che inevitabilmente, mentre la seguiamo, si dispiegano ai nostri occhi. Jane Austen padroneggia un’emozione molto più profonda di quanto non emerga in superficie. Ci stimola a fornire quel che manca. Lei pare offrire solo un’inezia che però si espande nella mente del lettore arricchendo certe scene a prima vista insignificanti di una vitalità quanto mai duratura»[1].
Il frammento di circa 17.500 parole che Jane Austen cominciò a scrivere nel 1803, forse incoraggiata dall’accettazione per la pubblicazione di Susan (che poi invece sarebbe stato pubblicato solo postumo col titolo di Northanger Abbey) contiene proprio all’inizio una scena perfetta di un ballo pubblico, un ballo che serve a presentare l’eroina – Emma Watson, appena ritornata in casa del padre in Surrey dopo aver vissuto piuttosto agiatamente nello Shropshire, quasi adottata da una zia – alla comunità da cui è mancata per buona parte della sua vita, dal momento che ha vissuto nello Shropshire per ben quattordici anni. Diventata vedova, la zia ha pensato bene di risposarsi e il nuovo marito, forse preoccupato che la moglie volesse destinare una parte delle sue ricchezze a Emma, ha preferito rimandarla dal padre.