Mia cara Cassandra… una chiacchierata lunga vent’anni

L’articolo originale è apparso sulla rivista di Jane Austen Society of Italy “Due pollici d’avorio”, numero 11 (2019), pagg. 120-125. Per richiedere l’intero numero, scrivere a info@jasit.it.


L’epistolario rimastoci di Jane Austen comprende 161 lettere, delle quali la maggior parte (95) indirizzate alla sorella Cassandra. È un corpus significativo, che possiamo considerare come una lunga conversazione tra le due sorelle, una conversazione epistolare che, nei periodi in cui erano separate, sostituiva quella che avevano quotidianamente nella loro vita in comune. Che siano da considerare conversazioni ce lo dice la stessa JA, in una lettera del 3 gennaio 1801 (n. 29):

Ormai ho acquisito la vera arte epistolare, che come ci hanno sempre detto, consiste nell’esprimere su carta esattamente ciò che si direbbe alla stessa persona a voce; ho chiacchierato con te quasi alla mia velocità abituale per tutta questa lettera.

Manoscritto della citazione: I have now attained the true art of letter-writing, which we are always told, is to express on paper exactly what one would say to the same person by word of mouth; I have been talking to you almost as fast as I could the whole of this letter.

Perché è importante conoscere le lettere? Perché ci raccontano moltissimo della vita di JA, della famiglia e dell’ambiente in cui viveva. Molte delle notizie che ne ricaviamo potrebbero sembrare dei semplici pettegolezzi d’epoca, che non dovrebbero interessarci più di tanto, ma non è così. Nei suoi romanzi JA ha scritto soltanto di cose che conosceva bene, e le lettere ci permettono di entrare nel suo mondo e quindi, indirettamente, anche nel mondo dei suoi personaggi. E poi i “pettegolezzi” sono davvero così irrilevanti? Sembra di no, visto che in un libro di uno storico israeliano ho trovato una considerazione interessante sulla correlazione tra nascita del linguaggio umano e pettegolezzi:

Una seconda teoria conviene sul fatto che il nostro linguaggio, unico nel suo genere, si sia sviluppato come mezzo per condividere informazioni sul mondo. Ma sostiene che le informazioni più importanti che occorreva trasmettere riguardassero gli umani, non i leoni o i bisonti. Il nostro linguaggio si sarebbe evoluto come un modo per fare pettegolezzi. Secondo questa teoria, Homo sapiens è innanzitutto un animale sociale. La cooperazione sociale è la nostra chiave per la sopravvivenza e la riproduzione. Agli individui, uomini o donne che siano, non basta sapere dove ci sono i leoni o i bisonti. Molto più importante per loro è sapere, riguardo al proprio gruppo, chi odia chi, chi dorme con chi, chi è onesto e chi è un imbroglione.[1]

Ogni volta che viene citata Cassandra Austen in relazione alle lettere della sorella, e abbiamo visto come sia la destinataria di gran lunga più presente nell’epistolario conosciuto, emerge una questione spinosa, ovvero il rogo della maggior parte dei manoscritti, così come ci racconta la nipote Caroline, figlia di James Austen:

Le sue lettere alla Zia Cassandra (perché talvolta erano separate) credo proprio che fossero aperte e confidenziali. Mia Zia le controllò e ne bruciò la maggior parte (così mi disse) 2 o 3 anni prima della propria morte. Ne lasciò, o ne diede alcune come ricordo alle Nipoti, ma di quelle che ho visto io diverse avevano parti tagliate.[2]

Ma che cosa potrebbe averci fatto perdere quel rogo? Possiamo fare solo delle ipotesi più o meno fantasiose. Il curatore della prima edizione critica dell’epistolario, R. W. Chapman, la pensa così:

Senza dubbio questa distruzione ci è costata molto, ma possiamo presumere che un materiale più ricco non avrebbe sostanzialmente mutato l’impressione che abbiamo da ciò che resta. Le due sorelle vissero insieme per gran parte della loro vita, e in condizioni di stretta intimità. Di tanto in tanto si separavano per lunghe visite, e si scrivevano regolarmente. Ma lo scopo di queste lettere era di scambiarsi informazioni non solo tra di loro, ma tra due rami di una famiglia molto ampia. Ci sono segnali che indicano come queste lettere e altre simili fossero lette, o fatte leggere, a diverse persone. Ma anche se non fosse stato così, non sarebbe stato coerente con il carattere delle sorelle, o con le loro abitudini di vita, scambiarsi lettere contenenti sentimenti intimi o disquisizioni sui massimi sistemi. Non sarebbe stato confacente al buonsenso di Jane Austen far spendere alla sorella sei pence (o giù di lì) per opinioni su religione o politica, su vita o letteratura, che erano già ampiamente conosciute, o tenute per sé. Ma le notizie non potevano aspettare, e le novità danno sempre soddisfazione. Credo che solo in casi rari e imprevisti si interrompesse l’ordinario flusso di notizie.
Devo aggiungere, anche se con riluttanza, di avere l’impressione che Cassandra Austen non fosse la corrispondente migliore per far emergere il meglio della sorella. Le lettere alle nipoti mostrano un grado maggiore di fantasia, meno attenzione alle notizie minute. E le due lettere, scoperte recentemente, ad amiche al di fuori della famiglia, sono notevolmente superiori quanto a varietà e vigore.[3]

Sempre nell’Introduzione, Chapman, ricordando gli anni trascorsi nello studio dell’epistolario, cita The Last Chronicle of Barset di Anthony Trollope:

Dato che ho concluso la mia discontinua occupazione degli ultimi anni, durante i quali mi sono concesso l’innocua curiosità di osservare nascite, matrimoni e morte di persone senza importanza, dettagli di viaggi e conduzione economica di case di campagna, non posso fare a meno di richiamare alla memoria la frase finale di The Last Chronicle of Barset:

Ma per me il Barset è stato una vera contea, e il suo capoluogo un vero capoluogo, e le guglie e le torri sono state davanti ai miei occhi, e le voci delle persone sono familiari alle mie orecchie, e i marciapiedi delle strade della città noti ai miei passi.

Che Godmersham e Chawton fossero e sono luoghi reali, come Barset e Mansfield non sono, non fa, credo, molta differenza. Il miracolo della comunicazione è lo stesso.[4]

citazione che viene ripresa qualche decennio dopo da Deirdre Le Faye, la curatrice delle ultime edizioni delle lettere, nella parte finale della “Prefazione alla terza edizione”:

Il Dr Chapman aveva ricordato The Last Chronicle of Barset, e la curatrice di questa edizione si è ricordata del commento ai romanzi di Trollope da parte di Nathaniel Hawthorne, ovvero che essi erano “reali proprio come se qualche gigante avesse estratto un grosso pezzo dalla terra e l’avesse messo sotto una campana di vetro, con tutti i suoi abitanti che se ne vanno in giro impegnati nelle faccende quotidiane, senza sospettare di essere stati trasformati in protagonisti di una storia.” Le lettere di Jane Austen non sono “reali proprio come se”, sono reali, e mentre le leggiamo, anche noi possiamo osservare le faccende quotidiane di lei stessa, della sua famiglia e degli amici che ne incrociavano la vita, e, se vogliamo, tornare indietro di duecento anni per partecipare non visti alle loro gioie e ai loro dolori.[5]

E allora non dobbiamo fare altro che leggere le sue lettere, in particolare quelle alla sorella, per tornare indietro di duecento anni e spiare dal buco della serratura la vita quotidiana di Jane Austen, della sua larghissima famiglia e dei tanti amici e conoscenti che ha incontrato nel corso della sua vita, cercando, senza esagerare, di cogliere anche indizi che ci aiutino a leggere meglio le sue opere.
E nel farlo non dobbiamo pensare che il rogo epistolare di Cassandra ci abbia privati di tutto quello che avrebbe potuto rivelarsi sconveniente per la memoria della sorella, in particolare giudizi un po’ troppo “sinceri” su parenti e amici, visto che nelle lettere rimaste tali giudizi di certo non mancano, per esempio questo, riguardante il fratello James, che nel 1797 aveva sposato in seconde nozze Mary Lloyd:

Sono dispiaciuta e arrabbiata che le sue visite non mi diano più nessun piacere; la compagnia di un Uomo così buono e intelligente dovrebbe essere gratificante di per sé; – ma le sue Parole sembrano sempre forzate, le sue Opinioni su molte cose troppo ricalcate su quelle della Moglie, e mi sembra che passi il suo tempo qui girando per Casa e sbattendo le Porte, oppure suonando il Campanello per un bicchiere d’Acqua.[6]

Per non parlare dei frequentissimi accenni all’evidente ipocondria di Mrs. Austen, come in questi due esempi:

La Mamma prosegue bene, appetito e sonno sono ottimi, ma gli Intestini non sono ancora completamente a posto, e talvolta si lamenta dell’Asma, dell’Idropisia, di Acqua nei Polmoni e di Disturbi al fegato.[7]

Stamattina sono tornata da Manydown, e ho trovato la Mamma sicuramente sotto nessun aspetto peggiore di quando l’avevo lasciata. – Non le piace il freddo, ma in questo non possiamo essere d’aiuto. […] L’umore della mamma non è influenzato dall’aumento dei suoi disturbi; al contrario è tutto sommato più buono che mai; né devi supporre che queste malattie siano spesso immaginarie.[8]

Non mancano poi considerazioni molto “tranchant” su amici e conoscenti (anche in questo caso un paio di esempi fra tanti):

Il ballo è stato tenuto su principalmente dai Jervoise e dai Terry, i primi dei quali erano inclini alla volgarità, i secondi al rumore.[9]

Mrs John Lyford è talmente soddisfatta della sua vedovanza che si sta preparando a diventare di nuovo vedova; – sta per sposare un certo Mr Fendall, un banchiere di Gloucester.[10]

Silhouette di Cassandra Austen

Dobbiamo quindi ammettere di non essere in grado di conoscere i motivi che indussero Cassandra Austen a commettere quello che molti austeniani odierni considerano un sacrilegio, ed essere comunque lieti del fatto che la parte di epistolario rimasta ci permetta comunque di ricostruire molti aspetti del carattere di Jane Austen, con i limiti sempre presenti quando si ricostruisce a posteriori, e non solo, la biografia di una persona.
A conclusione di questo articolo, voglio dare voce a Cassandra, con alcune righe della sua lettera del 20 luglio 1817 alla nipote Fanny, nella quale le annunciava la morte della zia:

Ho perso un tesoro, una Sorella, un’amica che non potrà mai essere superata. – Era la luce della mia vita, rendeva preziosa ogni piccola gioia, alleviava ogni pena, mai le ho nascosto un mio pensiero, ed è come se avessi perduto una parte di me stessa.

Forse ricordarla come la fedele e costante compagna di vita della scrittrice è più giusto che accusarla di averci privato di chissà quali segreti, che probabilmente, se mai ci sono stati, non hanno mai avuto posto nell’epistolario tra le due sorelle.


Note

[1] Yuval Noah Harari, Sapiens. Da animali a dei, traduzione di Giuseppe Bernardi, Parte prima – 2. L’albero della conoscenza (ebook).
[2] Caroline Austen, My Aunt Jane Austen. A Memoir, traduzione mia (Mia zia Jane Austen. Ricordi) in jausten.it. La traduzione delle citazioni che seguono, dalle lettere o da altre fonti, è mia, salvo indicazione contraria.
[3] R. W. Chapman (a cura di), Jane Austen’s Letters to Her Sister Cassandra and Others, Clarendon Press, Oxford, 1932, “Introduction”, pp. XXXIX-XL.
[4] Ivi, p. XLV. La citazione di Trollope è tratta da Le ultime cronache del Barset, trad. di Rossella Cazzullo, Sellerio, Palermo, 2010, pag. 1131.
[5] Deidre Le Faye (a cura di), Jane Austen’s Letters, Third Edition, Oxford University Press, 1995, “Preface to the Third Edition” p. XVIII.
[6] Lettera n. 50 dell’8 febbraio 1807.
[7] Lettera n. 14 del 18 dicembre 1798.
[8] Lettera n. 15 del 24 dicembre 1798.
[9] Lettera n. 18 del 21 gennaio 1799.
[10] Lettera n. 30 dell’8 gennaio 1801.

 

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