Benvenuti alla seconda edizione dello Speakers’ Corner di JASIT. Apriamo i lavori con un contributo di Romina Angelici.
Si è sempre tentati di immedesimare l’autrice di un libro con le sue eroine perché si ritiene che l’esperienza diretta di emozioni e sentimenti possa essere cucita meglio addosso al personaggio. Ma Jane Austen, una che livellava tutto, che stava attenta a che tutte le apparenze fossero salvate e che nulla fosse fuori posto, difficilmente potrebbe essere stata indotta a scrivere di sé, sapendo oltretutto che il pubblico a cui le sue storie erano destinate era la sua stessa cerchia familiare e amicale per i quali la sua non sarebbe stata altro che una incauta confessione.
È preferibile e più verosimile pensare che un po’ di lei sia travasato in ogni protagonista, che abbia distribuito le sue peculiarità o i gusti o le caratteristiche ora all’una ora all’altra industriandosi a costruire intorno ad esse delle situazioni e delle storie che forse lei non aveva avuto o aveva vissuto solo a metà, per vedere come avrebbero potuto svilupparsi.
Elizabeth le somiglia molto, nelle sue franche affermazioni, con il suo gusto per la risata ma non so quanto per quella falsa presunzione tipica della giovinezza di saper giudicare senza aver affatto esperienza del mondo. La sorella Jane, che non risalta per le battute della sua lingua tagliente ma per la sua pacifica bellezza, non pensa mai male di nessuno e argina da vicino il fiume in piena che è Lizzie quando si scaglia in giudizi tranchant, affrettati e assolutamente parziali, spesso a sua volta veri e propri pre-giudizi.
Ma certamente la storia ha il suo bel lieto fine, Elizabeth riesce a recuperare il suo rapporto con Darcy, ad ottenere una dichiarazione dignitosa e anche una bella e invidiabile posizione come signora di Pemberley, ma il suo percorso personale, come in un romanzo di formazione, è passato attraverso numerosi sbagli e passi falsi, erronei convincimenti di cui ha dovuto puntualmente ricredersi e rammaricarsi.
In realtà hanno tutte queste ragazze, la loro parabola ascendente da dover valicare per poter giungere alla loro maturità di donne. Per Marianne si ricorre al topos letterario – anche se spogliato di implicazioni metafisiche – della malattia come catarsi, per ridurre l’esagerata sensibilità a ragionevolezza, ma Elinor sceglie un modo molto meno eclatante (anche in questo caso incide la diversa natura: all’amore per la platealità dell’una si affianca la silenziosa riservatezza dell’altra) per mettere alla prova il suo carattere, ma anche il suo mutismo e il rigido controllo di sé si riveleranno sbagliati e fuorvianti.
Non è facile redigere un bilancio dei difetti e dei pregi delle due sorelle Dashwood perché se tanto esasperante è la svenevolezza della più giovane, lo è altrettanto la puntigliosità e praticità di Elinor che preannuncia l’acidume zitellesco di certe vecchie conoscenze: dobbiamo risparmiare sullo zucchero e sulla carne, quella casa non va bene, questo no e quell’altro pure.
A parte quindi un particolare trasporto personale verso l’una o verso l’altra per insondabili affinità, a non sbilanciarsi è proprio la narratrice o meglio a confonderci: se ella appare per quasi tutto il romanzo occhieggiare dietro le spalle di Elinor, annuire e plaudere al suo buonsenso, alla misura che mette in tutto ciò che dice e che fa, il finale del libro sembra smentire anche lei perché è Elinor a desiderare l’amore di Edward, a soffrire perché pensa che le sia stato negato, a cercare di perdonare Willoughby per il suo sfogo appassionato, a mostrare e a lasciare campo libero a tutti quei sentimenti su cui aveva predicato l’opportuna discrezione.
Di fatto però il vero lieto fine è assegnato a lei, quello di Marianne è tristemente opaco, quasi un ripiego.
A proposito di finali opachi, Fanny Price allora cosa dovrebbe dire del suo, conquistato a così grande prezzo (appunto) e sulla pelle di tutti gli altri personaggi del romanzo? Ha almeno il suo primato perché è l’unica a raggiungere il suo obiettivo di sempre, e cioè sposare il cugino Bertram, ma se è soddisfatta non ci è dato capirlo, impegnata come è sempre a fare contrizione, intrisa com’è di mestizia.
Non ispira alcuna simpatia, Fanny, se non per la tenacia e la forza d’animo di non essere crollata di fronte alla volontà imperiosa dello zio, nonostante i condizionamenti, le pressioni e i ricatti. Dovremmo vederla come la sacerdotessa degli ultimi fastigi dell’aristocrazia terriera inglese? O roccaforte di integrità morale che nemmeno una condizione economica disagiata può corrompere?
Buona, servizievole e remissiva tutto il tempo, ma incapace di sopprimere il crescente sentimento che cova in sé per Edmund – viene rispedita a casa dallo zio perché ha rifiutato una apparentemente vantaggiosa proposta di nozze. Ma non recede di un passo, non si arrende all’assedio ed è l’unico personaggio che non cresce, è statico, non subisce alcuna evoluzione. Cambiano tutti gli altri attorno a lei, ma non lei: alla fine del romanzo la ritroviamo come era all’inizio. Spettatrice della storia quasi come spettatrice della rappresentazione teatrale che i cugini e i fratelli Crawford avrebbero voluto mettere in scena a Mansfield Park. Difficile potrebbe rivelarsi questa volta rintracciare una caratteristica di Jane Austen in Fanny Price, sebbene per tutto un certo periodo la critica volesse indicare proprio il perbenismo.
Tanto mesta e dimessa è Fanny quanto Elizabeth è effervescente e allegra, una silenziosa, l’altra loquace; se dovessimo pensare alla prima la vedremmo seduta vicino a Lady Bertram che riavvolge il gomitolo di lana mentre l’altra è iperattiva e instancabile, non sta mai ferma un minuto. Cos’hanno in comune, ci si potrebbe domandare? Sono nate dalla stessa penna; ma sono state concepite in epoche diverse, con spirito diverso e anche per un progetto letterario differente.
Le situazioni saranno simili, lo schema dell’intreccio abbastanza ripetitivo ma non mi sentirei di accostare le eroine tra loro né di indovinare somiglianze di una con l’altra. Elizabeth Bennet non potrà mai essere confusa o richiamare anche solo lontanamente Fanny Price perché ciascuna è un unicum irripetibile. Esse vivono la loro perfetta vita all’interno del microcosmo che Jane Austen ha creato appositamente per loro (ed Emma ne è l’esempio supremo).
La Jane Austen Society of Italy (JASIT) è un’Associazione Culturale Italiana, attiva su tutto il territorio nazionale; in quanto società letteraria, promuove in Italia la conoscenza e lo studio di Jane Austen, la sua vita, la sua opera e tutto ciò che è legato ad essa, attraverso qualunque attività utile a realizzare tale scopo, nel nome dell’arricchimento culturale personale e condiviso.
2 commenti
Ultimamente ho riletto Mansfield Park con estrema attenzione ai dettagli. L’ho fatto con lo sguardo dell’esploratore, perché stavo “cercando” Fanny e, dietro di lei, cercavo Jane Austen.
Le riflessioni sarebbero numerose, ma più di tutte una: che, paradossalmente, trovo Fanny la più indipendente delle eroine austeniane. Non indipendente in sé stessa, come persnoaggio, ma indipendente dall’autrice. Fanny si è scritta da sola, a un certo punto, con i suoi timori, la sua insicurezza e ciò nonostante il suo essere prepotentemente volitiva e giudicante, si è staccata dalla penna ed è andata avanti sulle sue gambe, al punto che continuamente, da dietro le sue spalle l’autrice sussurra, suggerisce, spiega, riflette, si sente in dovere di farle la parafrasi di aggiungere “se” e “ma”. Ma lei niente. E’ ostinata, Fanny, frustrata, introversa, ipersensibile e allo stesso tempo così poco fragile e poco eterea e a suo modo, nella sua passività, persino sfuggente. E’ complessa. Ed è viva. Questo, direi, ha in comune con Jane Austen, vivissima e in splendida forma dopo due secoli 🙂
Grazie Angela! La tua riflessione è molto interessante. È affascinante come talvolta i personaggi spicchino il volo e diventino del tutto indipendenti dai loro creatori. Sono le gioie della grande letteratura 🙂