Leggere – e rileggere – il frammento che ci è rimasto di The Watsons ci fa sempre pensare a quanto sia un peccato che Austen non abbia continuato la narrazione. Il suo ottimo stile, i dialoghi brillanti, nonché le ampie prospettive che queste poche pagine ci aprono sul carattere e sulle vicende dei personaggi, ci presentano infatti una storia potenzialmente interessantissima, e forse molto diversa (forse un po’ più cinica?) rispetto ai luminosi Orgoglio e pregiudizio o Emma, che da quest’opera eredita il nome della sua eroina.
La nostra autrice scrisse una prima bozza di circa 17500 parole (senza suddivisione in capitoli); poi però l’abbandonò e non vi rimise mai più mano. Il manoscritto fu tuttavia conservato (per fortuna!), e Cassandra, che lo ricevette in lascito, lo passò a sua volta alla nipote Caroline Austen; per la pubblicazione si dovette attendere il 1871, quando fu dato alle stampe il Memoir of Jane Austen di James Edward Austen-Leigh, il quale si prese anche la responsabilità di dare a questo testo il titolo che conosciamo.
La storia mette in scena la famiglia Watson, numerosa e piuttosto infelice, che abita ai margini di una piccola città nel villaggio di Stanton, appartenente alla contea del Surrey. Il padre, un reverendo, è un vedovo impoverito e malinconico, quasi incapace di adempiere ai suoi doveri professionali, e così debole da non riuscire a mantenere il dovuto controllo sulla famiglia. I due figli maschi, Robert e Sam, sono fuori casa: il primo ha sposato una donna presuntuosa e vanesia e si è trasferito a Croydon, il secondo esercita la professione medica a Guildford. Le figlie, Elizabeth (che amministra la casa a prezzo di grandi fatiche, considerata la scarsa rendita), Penelope e Margaret (in costante conflitto l’una con l’altra), sono coscienti del baratro economico e sociale che si spalancherebbe davanti a loro in caso di morte del padre: sanno che sarebbero sfrattate e che precipiterebbero nell’assoluta indigenza, e sono dunque spaventatissime all’idea di non riuscire a trovare marito. Ma la protagonista della storia è Emma, vissuta per quattordici anni a casa di una zia nello Shropshire, ma ora destinata a tornare in famiglia a causa del matrimonio della sua benefattrice. Il suo ritorno a casa non è accolto con particolare affetto, data la povertà imperante, ma la sorella Elizabeth sembra offrirle qualche parola gentile.
L’incipit, nonché il momento culminante di quest’opera incompleta, com’è il caso – potremmo dire – anche dei romanzi compiuti, è costituito dalla scena del ballo. Elizabeth accompagna Emma per una breve visita dagli Edwards che le consentirà di partecipare alla prima festa danzante della stagione invernale: la prospettiva, ovviamente, è quella di conquistare un corteggiatore. Il ricevimento si tiene alla White Hart Inn, e la descrizione dell’arrivo alla locanda del gruppetto cui Emma appartiene è un paradigma superbo della tecnica della visualizzazione narrativa. Sembra quasi che Austen si muova brandendo una telecamera, che si sposta fluidamente a destra e a sinistra, in alto e in basso, soffermandosi su squisiti dettagli e registrando luci, suoni, atmosfere con una vividezza straordinaria. Leggiamo insieme questo passo:
“Mrs. Edwards, preoccupandosi del proprio abito e contemporaneamente mostrando una ancor maggiore sollecitudine per il benessere delle spalle e della gola delle sue protette, fece strada su per l’ampia scalinata, mentre nessun suono di danze, se non il primo stridore di un violino, raggiungeva le orecchie delle sue accompagnatrici. […] Attraversarono un breve corridoio in direzione della sala da ballo, che scintillava di luci di fronte a loro […]. L’abito di satin di Mrs. Edward frusciò sul pavimento lindo della sala fino al focolare all’estremità opposta, dove sedeva compitamente un solo gruppetto, mentre tre o quattro ufficiali ciondolavano intorno, entrando e uscendo dalla sala da gioco adiacente.”
I convenuti notano subito Emma, che è “ben fatta” “in piena salute”, ha “la pelle scura, ma pura, liscia, e luminosa”, “gli occhi vivaci, un sorriso dolce, e l’espressione franca”. Tra coloro che la invitano a ballare, la giovane trova molto simpatico il reverendo Mr. Howard, mentre la compagnia di Lord Osborne e dell’impudente Tom Musgrave la mettono a disagio.
La forza letteraria di questa breve scena ha colpito anche Virginia Woolf, che in The Common Reader ha commentato: “Quali ne sono le componenti? Un ballo in una città di provincia; alcune coppie che si incontrano e si tengono per mano in una sala dove si mangia e si beve un po’; e, come ‘catastrofe’, un ragazzo che viene umiliato da una signorina e trattato con bontà da un’altra. Nessuna tragedia, nessun eroismo. Eppure, per qualche motivo, la scenetta ci commuove in modo del tutto sproporzionato all’apparente banalità. Il comportamento di Emma nella sala da ballo ci ha permesso di capire quanto riguardosa, tenera e spinta da sentimenti sinceri si sarebbe rivelata nelle crisi più gravi della vita che inevitabilmente, mentre la seguiamo, si dispiegano ai nostri occhi. Jane Austen padroneggia un’emozione molto più profonda di quanto non emerga in superficie. Ci stimola a fornire quel che manca. Lei pare offrire solo un’inezia che però si espande nella mente del lettore arricchendo certe scene a prima vista insignificanti di una vitalità quanto mai duratura” (trad. it. di D. Guglielmino).
Il frammento si conclude quando Emma incontra altri membri della sua famiglia, riscontrando però in loro affettazione, litigiosità ed egoismo. Ormai il palcoscenico è affollato; ma il sipario cala bruscamente su tutti loro, e delle loro vicende non veniamo a sapere più nulla di certo. I ricordi di Cassandra, riportati alle nipoti, suggeriscono che Austen aveva in mente di far morire Mr. Watson e di affidare Emma alle poco amorevoli cure del fratello Robert e di sua moglie Jane. La giovane rifiuterà la proposta di matrimonio di Lord Osborne e accetterà invece quella del Reverendo Howard, il cui amore sarà conteso da Miss Osborne. Il motivo preciso per cui l’Autrice abbandonò la narrazione non è noto; di certo negli anni della stesura le condizioni di vita degli Austen non erano tra le più felici: il Reverendo Austen morì nel 1805 (forse era troppo doloroso raccontare la vicenda di un padre morto e delle difficoltà economiche precipitate di conseguenza sulla sua famiglia…), ed è molto probabile che i continui traslochi che si succedettero – da Steventon a Bath, da Bath a Southampton, e infine a Chawton – abbiano impedito una serena e proficua prosecuzione dell’attività di scrittura.
Fonti:
J. Austen, I Watson, trad. di G. Ierolli, http://www.jausten.it/jaaothewatsons.html
D. Le Faye, Jane Austen: The World of Her Novels, Frances Lincoln 2003
La Jane Austen Society of Italy (JASIT) è un’Associazione Culturale Italiana, attiva su tutto il territorio nazionale; in quanto società letteraria, promuove in Italia la conoscenza e lo studio di Jane Austen, la sua vita, la sua opera e tutto ciò che è legato ad essa, attraverso qualunque attività utile a realizzare tale scopo, nel nome dell’arricchimento culturale personale e condiviso.
6 commenti
Ho sempre condiviso l’affermazione di chi sosteneva che se questo frammento fosse spuntato fuori dal nulla, non ci sarebbe stata alcuna incertezza nell’attribuirlo subito a Jane Austen.ricordo il passo della Woolf che invita ad esaminare proprio le opere incompiute di un autore per indovinarne il metodo di lavoro. Si potrebbe indire una specie di bando o sondaggio tra le Janeites o le Jasites (?!) sui possibili finali immaginati?
Grazie del tuo commento, Romina; rilanciamo subito la tua proposta: qualcuno dei nostri lettori ha immaginato uno sviluppo e un finale per “I Watson”? Siete tutti concordi sull’happy ending oppure pensate che, forse, questa storia avrebbe potuto prendere una strada diversa rispetto agli altri testi austeniani? Rispondete numerosi (e per prima tu, Romina)!
Ciao,
vi seguo da un po’ ma è la prima volta che commento. Complimenti per questo bel post su The Watsons. Rispondo volentieri al sondaggio di Romina, che ha scritto un commento davvero molto condivisibile, appoggiando un probabile dénouement comico: Emma che patisce, Emma che attraversa un periodo di incertezza circa i sentimenti del suo preferito e alla fine tutto è bene quel che finisce bene. Certo però l’inizio è davvero amaro (più di MP, secondo me).
Ciao!
Austenismi
Ciao Austenismi, grazie del tuo (primo) commento e dei tuoi complimenti. Concordo con te sul fatto che l’inizio dei Watson sia davvero un boccone difficile da digerire… ma come tu sostiene, è probabile che anche nella mente di Jane “all’s well that ends well”.
(Mara)
Ciao a tutti, l’ho appena letto, comprato al supermercato nella nuova serie dei grandi romanzi a € 1,99… francamente l’ho trovato deludente su molti fronti, stile, personaggi, trama, linguaggio, ahimé molto povero.
Niente a che vedere con la complessità delle opere canoniche di Jane Austen, ma certo sarebbe stato tutto da rivedere, perciò io non sarei stato così certo della sua attribuzione se non ci fossero state le testimonianze…
E poi perché chiamare successivamente un’altra eroina Emma? No la Austen non l’avrebbe più ripreso, probabilmente da donna intelligente qual’era aveva capito che non c’erano molte potenzialità.
Il finale? A me è simpatico Tom Musgrave, avrei visto bene un happy ending con lui anziché il solito noioso reverendo…
Anch’io ho acquistato stasera l’edizione nuova di Newton & Compton, molto carina, ben rilegata! Un incontro significativo! La conclusione che ho immaginato (anni fa quando lo lessi la prima volta) vede Lord Osborne dirottare le sue attenzioni verso Mary Edward su invito di Lady Osborne che sa bene che Emma ha una rendita esigua. Penelope tornata da Chichester vedova e ricca perché è riuscita a sposare il sig. Harding in punto di morte, si incarica di consolare il capitano Hunter e Sam Watson smette di pensare a Mary quando scopre che il dott. Curtis ha una figlia carina e in età da marito. Margaret dopo aver concordato con Musgrave una fuga d’amore, riceve l’invito al fidanzamento ufficiale di questi con la signorina Osborne. Al sig. Howard occorreranno diversi balli per essere certo dei sentimenti di Emma e per dichiararsi a lei. La mancanza di altri pretendenti farà rimanere Elizabeth eternamente fedele al suo primo amore Purvis e custode del focolare domestico vicino al padre.