Jane Austen e la teoria letteraria: una riflessione

Che le opere di Jane Austen possano essere annoverate fra i classici immortali della letteratura mondiale è ritenuto un dogma, è assodato, è fuori discussione. Quale sia la natura di un “classico letterario”, e quali definizioni potrebbero essere associate a questo termine potrebbe però essere oggetto di una lunga e articolata riflessione. È mio parere che uno dei parametri validi per giudicare l’immortalità e la grandezza di un’opera letteraria sia la possibilità di leggerla da una molteplicità di punti di vista, persino poco pertinenti l’uno con l’altro. Se, come sosteneva Calvino nella sua celeberrima osservazione, “un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha dire”, si può affermare che un’opera soggetta a quante più possibili interpretazioni critiche deve essere definita un classico.

Sfogliando una qualsiasi bibliografia austeniana, come può essere quella che abbiamo inserito nella nostra pagina “Bibliografia italiana”, o nella nostra “Study Guide”, o la sistematica bibliografia redatta annualmente dalla Jane Austen Society of North America (consultabile fra i vari articoli della loro rivista online, “Persuasions”), è facile notare – anche semplicemente con un’occhiata ai titoli dei vari contributi – che almeno i sei romanzi canonici sono stati e sono tuttora oggetto di studi critici che derivano dalle più svariate scuole di pensiero. Non tutte le opere di narrativa sono così ricche di significato da poter godere di un simile trattamento.

In questo post voglio tentare un rapido excursus che tocchi le principali manifestazioni della teoria e della critica letteraria del Novecento per dimostrare che ciascuna di loro ha, ha avuto, o potrebbe avere, la possibilità di scavare nella scrittura di Jane Austen per trovarvi infiniti spunti di pensiero e di discussione.

4Partiamo con i cosiddetti Cultural Studies. Raymond Williams affermò l’allontanamento da una visione della cultura elitaria e idealistica verso un’idea più ampia, che riconosca il dinamismo e la complessità della società contemporanea. All’interno di questo ambito si ritrova un’enfasi sulla cultura di massa rappresentata dai giornali, dalla televisioni e oggi dai media digitali, e in generale un’attenzione particolare sul modo in cui i lettori recepiscono l’opera letteraria (questo specifico approccio è denominato “Reader-Response Theory”). Come non vedere che negli ultimi anni Jane Austen si è offerta a questo percorso interpretativo forse più di qualsiasi altra grande voce della letteratura? Pensiamo ai film, ai serial, ai fumetti, ai blog, ai videogame, alle celebrazioni, alla sconfinata oggettistica che gira intorno alla sua figura e ai suoi personaggi. Non si deve temere smentita se si afferma che molti fan di Austen non hanno probabilmente mai finito di leggere i suoi libri. Se poi vogliamo soffermarci su quel particolare aspetto dei Cultural Studies che è l’orbita degli studi postcoloniali, ci sono passi delle opere di Jane Austen che offrono spazio a questa argomentazione. Forse più degli altri, sono Emma e Mansfield Park gli oggetti di tale interesse (del secondo ha scritto profusamente Edward Said in Culture and Imperialism): ne ho parlato più dettagliatamente in un post di JASIT intitolato “Cittadini del mondo: visioni contemporanee dei personaggi di Jane Austen“.

Sulle teorie femministe e i gender studies il discorso è ancora molto complesso (basti pensare al rigurgito di velenoso maschilismo apparso sui commenti online alla notizia che l’immagine di Jane Austen comparirà sulla banconota da 10£. Sull’argomento potete inoltre leggere qui la nostra recente traduzione di un articolo di Miriam Ascarelli). Di certo, però, l’opera di Austen è pervasa di, se non talvolta addirittura motivata da, riferimenti allo stato di dipendenza in cui versavano le donne della sua epoca. Il matrimonio, croce e delizia delle sue storie, è pensato, aspirato e vissuto in costante rapporto con il denaro, rivelandosi così nella sua natura di contratto di vendita del corpo femminile. Il quale, di conseguenza, non sembra appartenere veramente alle donne, ma non è altro che un prezioso e fragile specchietto per le allodole più ricche, da tenere quindi particolarmente da conto. Orgoglio e pregiudizio è illuminante da questo punto di vista.

Parlando di denaro e di gerarchia sociale non possiamo non pensare alla critica marxista: secondo questa linea di pensiero, l’analisi del contesto e delle strutture storico sociali è fondamentale per comprendere un testo letterario. E quali se non i romanzi di Jane Austen offrono la visione di un mondo in cui la quotidianità è regolata dal dominio di una classe sociale sull’altra e dal valore pratico ed economico delle cose e delle persone? Non serve ricordare che gli uomini e le donne di Austen sono più o meno tutti classificati numericamente – ovvero in base al numero di zeri della loro rendita o della loro dote, rispettivamente.

Ma i sei romanzi canonici possono essere avvicinati anche con una attenzione al loro significato psicologico. Non è difficile citare come stimolo di una simile riflessione la delicata relazione tra genitori e figli. Forse a causa del complesso rapporto con la propria madre, Austen ha creato una miriade di personaggi che il destino ha reso orfani o i cui padri e le cui madri sono talmente insulsi da far pesare la loro assenza sulla crescita emotiva dei figli. La galleria di esempi è molto affollata: i signori Bennet, il padre di Anne Elliot, il padre di Emma, per certi versi la signora Dashwood, i genitori di Fanny Price e persino il padre e la madre di Mr. Darcy (lui stesso ritiene di essere stato reso così “orgoglioso” dal tipo di educazione ricevuta durante l’infanzia) risultano totalmente inadeguati al loro ruolo di educatori. Per i genitori assenti, come le tenere madri di Anne e di Emma, rimane vivo un senso di mancanza che non può che contribuire al progresso delle loro vicissitudini. Un esempio molto chiaro dell’importanza data a questa assenza è l’incipit della miniserie Emma (BBC, 2009), che rappresentando un originale antefatto al romanzo mostra le diverse sorti di tre bambini orfani di Hartfield: la stessa Emma, che però dopo la morte della madre ne trova una vicaria nei panni di Mrs. Weston; Frank Churchill, spedito da una zia arcigna a causa dell’incapacità di suo padre di prendersi cura di lui; e Jane Fairfax, che diventerà la più sofferente, seria e matura dei tre, perché a sostituirsi ai genitori perduti non avrà a disposizione altro che la povera Miss Bates.

5Emma è stato, anche di recente, oggetto di numerosi articoli critici concentrati sull’uso del linguaggio nelle opere di Austen. Questo romanzo interpreta, come solo la grande letteratura sa fare, quel delicatissimo rapporto tra parola e silenzio che rende un libro semplicemente immortale, perché permette ai suoi fruitori (i lettori) una sconfinata libertà di interpretazione. La teoria decostruzionista può essere considerata l’ispiratrice di questi interventi, perché è un movimento critico che si è dedicato al modo in cui il linguaggio ha costituito il significato attraverso il gioco delle differenze, degli “errori” e dei vuoti di significante. Parlando proprio di Emma, pensiamo ai giochi di e con le parole in cui i personaggi si intrattengono e ai fraintendimenti che generano, così importanti per lo sviluppo della vicenda narrata. La sconfinata mole di linguaggio che riempie le pagine di Emma fa in modo che la protagonista sia, come sostiene Francesco Marroni, “wholly involved in language” (“totalmente compresa nel linguaggio”. In: Jane Austen’s Emma. Revisitations and Critical Contexts, a cura di F. Marroni e G. Lauri-Lucente, “Riverrun”, Aracne, 2011, p. 18) e arriva a far ritenere che “Austen’s heroine and language are one and the same thing. […] Emma can be equated to the language she produces” (“l’eroina austeniana e il linguaggio sono la stessa cosa. […] Emma può essere paragonata al linguaggio che produce”. Ibidem). Per contrasto, i passi in cui è il silenzio a prevalere assumono una eccezionale rilevanza. La scena della dichiarazione d’amore di Mr. Knightley (vol. III, cap. 13. Cito la traduzione di G. Ierolli), che si colloca a parer mio tra i momenti più alti e insieme più moderni della scrittura austeniana, ne è una perfetta dimostrazione. Il dialogo tra lui ed Emma è infarcito di pause e sospensioni (anche grafiche: trattini e puntini) e di riferimenti al “non dire”, tanto che la reciproca comprensione è persino minacciata da un’interruzione:

“Non volete chiedermi quale sia la ragione precisa della mia invidia, Emma. Vedo che siete determinata a non mostrare curiosità. Siete saggia… ma io non posso essere saggio, Emma, devo dirvi quello che non mi chiedete, anche se potrei desiderare di non averlo detto un istante dopo.”
“Oh! allora non ditelo, non ditelo”, esclamò lei con fervore. “Prendetevi un po’ di tempo, riflettete, non impegnatevi.”
“Vi ringrazio”, disse lui, con un accento di profonda mortificazione, e non aggiunse nemmeno una parola in più.Ma dopo questa pericolosa battuta d’arresto, utile per entrambi i personaggi all’introspezione e all’analisi dei sentimenti, la conversazione riprende, e la successiva fase di silenzio è foriera di gioia, perché significa amore ed accettazione:

“Mia carissima Emma”, disse, “perché carissima mi siete sempre stata, quale che sia l’esito di questa conversazione, mia carissima, mia amatissima Emma… ditemelo subito. Ditemi «No», se è questo che volete dire.”
Lei non era davvero in grado di dire nulla.
“Restate in silenzio”, esclamò lui, con grande agitazione; “un totale silenzio! Al momento, non chiedo di più.”

Il commento conclu7sivo di Mr. Knightley conferma che talvolta le parole non hanno alcuna forza, ed è invece la loro assenza il solo veicolo capace di esprimere la grandezza interiore di un uomo:

“Non so fare lunghi discorsi, Emma” […] “Se vi amassi di meno, sarei capace di parlare di più”.

(Questo post è stato ripreso e ampliato da un articolo pubblicato sul blog Ipsa Legit.)

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