Vi proponiamo oggi la traduzione in italiano di un lungo e interessantissimo articolo dedicato all’uso del linguaggio in Ragione e sentimento. L’articolo, di Michal Beth Dinkler, è apparso sul numero invernale del 2004 di Persuasions On-line, la rivista ufficiale della Jane Austen Society of North America.
Parlare del silenzio: il silenzio e la parola come strumenti sovversivi del potere in Ragione e sentimento di Jane Austen
di Michal Beth Dinkler
V.25, NO.1 (Winter 2004)
In Una stanza tutta per sé Virginia Woolf afferma che la società ottocentesca respinse la scrittura femminile a causa della paura, manifestatasi in un conflitto di valori: “Questo è un libro importante, sostiene il critico, perché tratta della guerra. Questo è un libro insignificante perché si occupa dei sentimenti di una donna in salotto.” Laddove Woolf traccia una netta dicotomia tra la guerra “maschile” e il salotto “femminile”, i romanzi di Jane Austen fondono, a dire il vero, tali stereotipi di genere, rappresentando l’apparentemente innocuo salotto come un vero, e pericoloso, campo di battaglia domestico. In mancanza di potere sociale o politico, la sola arma di Austen nella lotta per l’influenza era la sua lingua, profondamente persuasiva. Perciò i suoi romanzi si concentrano su un gioco strategico tra il linguaggio espresso e il silenzio, strumenti sovversivi del potere per la donna del diciottesimo secolo.
Nonostante una proliferazione, negli ultimi anni, di discussioni sui romanzi di Jane Austen, il linguaggio nei suoi romanzi è rimasto tristemente e ironicamente nell’ombra. Gli studiosi hanno espresso le loro osservazioni a proposito del discorso austeniano, ma solo limitatamente. In particolare, l’utilissimo libro di Bruce Stovel e Lynn Gregg, The Talk in Jane Austen ([Il discorso in Jane Austen] University of Alberta Press, 2003), inizia rimediando a questa strana negligenza. Nel capitolo “Mrs. Elton e altri aggressori verbali” Juliet McMaster definisce la parola femminile “velato stato di guerra”. In “‘Giù le mani dal mio uomo!’, o ‘Non vorresti averne uno?’: alcuni sottotesti di conflitto conversazionale in Jane Austen”, Lesley Willis Smith sfiora l’argomento dei “duelli verbali” tra Lucy Steel e Elinor Dashwood, tra gli altri. Tuttavia, sebbene diversi capitoli trattino brevemente Ragione e sentimento (1811), nessuno si occupa esaustivamente di questo romanzo, che è centrato sul discorso.
Marilyn Butler asserisce che, poiché Austen usa per la prima volta in Ragione e sentimento il discorso indiretto libero, “il dialogo è molto meno importante qui che in altri romanzi” (Jane Austen and the War of Ideas, Clarendon Press, 1975, p. 190). Scrivendo su Orgoglio e pregiudizio, Tony Tanner premette che “tutte le importanti transazioni (e la maggior parte di quelle non importanti o spiacevoli) si verificano attraverso il linguaggio” (Jane Austen, Harvard University Press, 1986, p. 130). Eppure, lo stesso vale per Ragione e sentimento, un romanzo con molte “lacune narrative” che, io credo, posso essere riempite solo dal dialogo. Questo articolo si concentrerà sui modi in cui i personaggi femminili di Ragione e sentimento usano il linguaggio – o la sua assenza – per manipolare coloro che si trovano intorno a loro, nonché sulla chiara presa di posizione di Austen a proposito di queste manipolazioni del potere.
Le donne austeniane ricorrono alle sole armi che hanno a disposizione – quelle dell’arsenale linguistico – per sovvertire la gerarchia di potere predominante. Molto è stato detto del risalto letterario che le due sorelle Elinor e Marianne si conferiscono reciprocamente, e della simmetria narrativa che il titolo anticipa in modo molto chiaro. Eppure, qui c’è molto di più di uno studiato parallelismo. Paragonando Elinor a Marianne, che si suppone ci piacciano entrambe, Austen fa un commento implicito sull’uso della parola nella società a cui appartiene: l’autrice loda l’autocontrollo di Elinor e mette in guardia i suoi lettori dalle eventuali trappole di un conflitto comunicativo. Così Elinor diventa “il facile canale attraverso cui passano prontamente i commenti [di Austen]” (E.M. Forster, Arbinger Harvest, Harcour brace, 1936, p. 149). Austen contrappone l’uso ragionato che Elinor fa del silenzio e della parola all’indiscriminata loquacità di Marianne, in modo da mostrare la propria ammirazione per la moderazione nel linguaggio.
Le due sorelle sono presentate ripetutamente come motivo di risalto l’una per l’altra, simili e dissimili allo stesso tempo. Nascondendo il dolore per il fidanzamento di Edward con Lucy, Elinor afferma: “Marianne, io non ho niente da dire”. La pungente replica di Marianne è: “Neanch’io […] dunque le nostre situazioni sono simili. Nessuna di noi due ha qualcosa da dire; tu perché non hai niente da comunicare e io perché non ho niente da nascondere.” Elinor allude alla profondità dei suoi sentimenti per Edward dicendo: “Credi, sono più forti di quanto io abbia dichiarato”. Marianne rimprovera Elinor per non voler condividere le proprie genuine emozioni: “Lo stimi! […] Usa di nuovo queste parole e lascerò la stanza immediatamente”. Sebbene screditi “l’uso [di] quelle parole” da parte di Elinor, Marianne percepisce che esse mancano di qualcosa, perché sono troppo scarse. Le sorelle sono, secondo la descrizione di Marilyn Butler, “sostenitrici di due credo opposti” (cit., p. 189).
Con il procedere del romanzo, siamo invitati a osservare gli effetti degli estremi opposti dei modi comunicativi di Elinor e Marianne. Quest’ultima, la vera Romantica, prospera nella sua floridezza, langue su strati e strati di linguaggio d’amore e soccombe a una tetra e lugubre malinconia. Di contro, le parole di Elinor sono limitate e ricercate. Austen collega il controllo sulla propria lingua con il potere, giudicando Marianne “priva di qualsiasi potere, poiché non ha alcun desiderio di controllo su se stessa”. Marianne esprime “sconsideratamente ciò che davvero” prova, e di conseguenza “la sua stessa irritazione per la mancanza di riflessione non può essere superata” dalla sorpresa dei suoi ascoltatori.
Ironicamente, a un certo punto Elinor non riesce “più ad assistere […] in silenzio” al “torrente di irrefrenabile dolore” di Marianne. Venendo a occupare il suo ora tipico ruolo parentale, ella fa sentire la sua voce per raccomandare a Marianne di sopportare in silenzio la sua sofferenza, come, il lettore sa, sta facendo lei. In effetti, nel corso della narrazione, vediamo Marianne cambiare profondamente; maturando, ella impara a trattenere la lingua. Quando Mrs. Jennings parla del doloroso argomento degli affetti di Edward in presenza di Elinor, la reazione di Marianne si limita a uno “spasimo in gola”. Per lei, questo è il massimo della discrezione, e per il lettore questo momento corrisponde al culmine della sua trasformazione.
Per mezzo dello “straordinario destino” di maturazione espressiva di Marianne, questo libro diventa una sorta di romanzo di formazione linguistico. Il silenzio è legato strettamente all’autocontrollo, soprattutto per Elinor: “Taceva. – La sicurezza di Elinor cedette; ma il suo autocontrollo non affondò con lei”. Austen preferisce la padronanza di sé propria di Elinor: “i suoi sentimenti erano forti; ma sapeva come governarli”. Elinor è venerata perché, per quanto “mortificata, stupefatta e confusa” mantiene “una compostezza nella voce, che nascondeva un’emozione e un’angoscia superiori a qualsiasi sentimento avesse mai provato prima”. Proprio mentre Elinor suggerisce alla sorella il “decoro insito in un po’ di autocontrollo”, Austen incoraggia i lettori alla stessa autodiscipina.
Benché suggerisca ai lettori di essere strategici nel loro uso del linguaggio, è chiaro come Austen disprezzi la sua manipolazione. È significativo che il catalizzatore dell’intera vicenda narrata in Ragione e sentimento siano i raggiri linguistici di una donna. All’inizio del libro, Mr. John Dashwood promette al padre morente che userà la propria eredità per aiutare e sostenere la matrigna e le sue figlie. Tuttavia, le macchinazioni di sua moglie su quel denaro offrono in definitiva lo spunto per gli eventi successivi del romanzo. Prima di tutto ella manipola il marito concordando superficialmente con le sue asserzioni, e cominciando le frasi con un compiacente “Certo”, “Di sicuro” e “Questo è proprio vero”. Poi, astutamente, insidia il proprio presunto consenso con l’espressione di un diverso punto di vista. Inducendo (traviando) il marito a credere di possedere il potere, la donna ridefinisce con sottigliezza la sua interpretazione del discorso del padre, fino a che Dashwood conclude: “Sicuramente, con la richiesta che mi ha fatto, mio padre non poteva intendere niente di più di quanto tu dici”. Così, unicamente in virtù di ciò che dice, Fanny contrasta le intenzioni di un uomo (il suocero) convincendone un altro (il marito) a negare il denaro alla matrigna vedova; private di quei soldi, le nostre eroine devono trasferirsi nel piccolo cottage di Barton Park e il romanzo si sviluppa a partire da questo punto.
Darryl Jones afferma che Elinor è in realtà una manipolatrice appartenente alla stessa categoria di Mrs. John Dashwood; è una “mentitrice abituale” che agisce “in modo molto simile” alla losca Lucy Steele (Critical Issues: Jane Austen, Palgrave-Macmillan, 2004, p. 73). Tuttavia, un attento esame del “conflitto conversazionale” tra Elinor e Lucy conferma la teoria secondo cui Austen non mette le due donne sullo stesso piano, anzi, le colloca in forte contrasto reciproco. Austen non si scusa per aver fatto di Lucy un personaggio manipolatore e intrigante. Alla sua prima apparizione, Lucy si impone sugli altri con il linguaggio continuando a fare ammenda per “tutte le affermazioni della sorella”. Quando la conversazione non le aggrada, usa la lingua come un timone, deliberatamente “sviando il discorso” nell’“ammirare la casa e l’arredamento”. Vuole insistentemente “coinvolgere [Elinor] nel dialogo” e le sue furbe osservazioni vengono definite “poteri”, quantunque assistiti dall’educazione. Come vedremo, se messa a confronto con Lucy, la rivale opportunista, Elinor emerge come virtuosa e saggia vincitrice.
Ricordiamo che la confessione non richiesta di Lucy a Elinor sul fidanzamento segreto con Edward è puramente strategica, e a un’occhiata superficiale è Lucy a sembrare la trionfatrice verbale. Involontariamente Elinor è inciampata in un campo minato di parole. All’inizio reagisce “con muta sorpresa” e il suo stupore è “troppo forte per le parole”. Troviamo qui una significativa reciprocità tra silenzio e rivelazione. Elinor percepisce il movente nascosto di Lucy, ovvero “informarla […] delle sue superiori rivendicazioni su Edward, e insegnarle a evitarlo in futuro”, e temporeggia. La “superiore rivendicazione” di Lucy su Edward la mette su un piano preminente in questa interazione sociale. Dapprincipio Elinor soccombe a Lucy in virtù di un senso del decoro; si lega a lei sotto molti punti di vista. Per amore di appropriatezza, la rivendicazione di Lucy – sia letterale che metaforica – induce Elinor a restare in silenzio, ora non solo a proposito del segreto di Lucy, ma anche in merito alla propria sofferenza personale.
Ironicamente, a un certo punto Elinor passa in vantaggio usando proprio ciò che Lucy le ha richiesto – il silenzio. Piuttosto che servirsi della parola come strategia offensiva per ottenere una supremazia sociale, Elinor ricorre al silenzio – il trattenere l’espressione verbale – come strategia difensiva per mantenere il potere. Subito dopo la rivelazione del suo segreto Lucy si interrompe platealmente, aspettandosi che sia Elinor a parlare. Invece “Elinor per qualche istante restò in silenzio”. Quando “Elinor non ha alcuna risposta da dare” Lucy chiede: “Vi sentite male, Miss Dashwood? […] non dite nulla”. Chiaramente il silenzio di Elinor ha messo a disagio la sua interlocutrice.Quando le due si incontrano di nuovo, Elinor prende il controllo introducendo l’argomento per prima. Durante questo scambio, Elinor tace per non meno di sei volte, mettendo Lucy in imbarazzo e rendendola ancora più espansiva. Mentre Lucy intenzionalmente “pone un accento particolare sulle [proprie] parole”, facendo nascostamente riferimento alla mancanza di pregiudizio da parte di Elinor, quest’ultima pensa sia “più saggio non dare alcuna risposta”. Segue un’ulteriore pausa, che Lucy non riesce a tollerare. In verità, nel corso del romanzo, ci accorgiamo che Elinor usa la tattica del silenzio come autodifesa contro la parola manipolatrice di Lucy. Se Lucy crede che il silenzio di Elinor significhi la propria vittoria sociale, il lettore scopre che il mutismo di Miss Dahswood attesta al contrario il suo sangue freddo.
Un aspetto fondamentale di ritorsione nel silenzio di Elinor è il suo deliberato tempismo. Con il procedere della storia, ella mostra a Lucy di essere a sua volta in grado di giocare con il linguaggio, dicendo: “Senza dubbio, se [i Ferrars] avessero saputo del vostro fidanzamento [….] niente sarebbe potuto essere per voi più lusinghiero; – ma poiché non è questo il caso…”. In questo frangente Elinor sferra un contraccolpo mortale: dice solo ciò che basta per insinuare il suo pensiero, e poi si interrompe del tutto. Sebbene sia vero che, da una parte, il silenzio distanzia questi due personaggi, d’altro canto esso le costringe a stare insieme, perché l’ascoltatore deve effettivamente “leggere fra le righe” di ciò che il parlante non dice. In questo modo, la strategia di Elinor le conferisce un vantaggio tattico, poiché richiede che sia Lucy (come Austen richiede che sia il lettore) a riempire quel vuoto comunicativo; attraverso il suo silenzio, Elinor costringe Lucy ad arrivare a delle conclusioni poco gratificanti.
Quando Elinor parla, lo fa solo con cautela e con premeditazione. Quando infine risponde alla rivendicazione iniziale di Lucy, si esprime “prudentemente” e con “modi calmi”. Se vuole evitare un argomento, passa sottilmente a un altro per spostare l’attenzione dell’interlocutore a un tema che lei preferisce. Per esempio, quando Mrs. Palmer chiede di Willoughby e del presunto matrimonio di Marianne, la risposta di Elinor, intenzionalmente, non ha nessuna connessione con la domanda: “Spero che Mr. Brandon stesse molto bene”. Sebbene taccia a proposito dello specifico interrogativo di Mrs. Palmer, Elinor parla di un altro argomento per distrarre l’attenzione dell’altra donna. In questo scambio, Elinor ha in mano il potere poiché traccia dei confini intorno al campo di battaglia dei contenuti comunicativi e contemporaneamente impedisce che Mrs. Palmer abbia accesso alle aree che lei reputa proibite. Ironicamente, il fatto che Elinor voglia sviare il discorso da Willoughby a Brandon riflette la più ampia flessione narrativa evidente nello spostamento degli interessi romantici di Marianne. Maturando, quest’ultima scopre “la falsità delle sue opinioni” e, con sua stessa sorpresa, si innamora dell’uomo la cui voce, secondo le sue prime affermazioni, “non ha alcuna espressività”. Di conseguenza, la risposta di Elinor a Mrs. Palmer funge da ironica prefigurazione di eventi successivi, svolgendo un ruolo sia letterario che dialogico.
La disapprovazione di Austen per gli estremi linguistici è efficacemente esemplificata anche dalle conversazioni dei personaggi minori. Al ricevimento di Mrs. Ferrars, la conversazione è “misera” poiché le donne “ostentano e atteggiano verbalmente” (Juliet McMaster, The Talk in Jane Austen, cit., p. 86) le loro opinioni, “ripetute […] ancora e ancora”. Nella maggioranza dei casi le persone sono troppo verbose, infatti “a differenza della gente in generale, [Mrs. Ferrars] proporzionava [le sue parole] al numero delle sue idee”. Inoltre, Austen afferma che, poiché questo è “proprio il caso del più importante dei loro visitatori”, John Dashwood “non aveva molto da dire che valesse la pena di ascoltare, e sua moglie ancora meno”. Austen critica con asprezza e con audacia i suoi contemporanei per il deciso eccesso dei loro tediosi pettegolezzi.
Le persone diventano troppo spesso eloquenti su temi inconsistenti, come dimostra, sotto la luce della satira, il comico rapporto tra il signore e la signora Palmer. Come Marianne, Mrs. Palmer non controlla i suoi superficiali discorsi. Parla incessantemente, e ciononostante ride: “Mr. Palmer non mi sente!” e deliziata dichiara: “Non mi dice mai niente!” Ci si chiede se l’uomo riesca a infilare qualche parola nei discorsi di lei. Spesso egli ignora la moglie completamente, e non le concede “alcuna risposta”. Entrando nella stanza “senza dire una parola”, Mr. Palmer “[prende] un giornale dal tavolo e continua a leggere per tutta la durata della sua permanenza.” Una delle poche volte in cui Mr. Palmer parla, lo fa per biasimare la loquacità della moglie, dicendo: “Non mi appioppare [palm] i tuoi sproloqui”. Qui, Austen disegna un bel gioco di parole: Mr. Palmer accusa la moglie di essere una che appioppa [palmer] sproloqui, perché non dimostra alcun controllo.
Forse l’osservazione più efficace di Austen è un monito: dobbiamo bilanciare le nostre espressioni. In questo senso, il romanzo può essere inteso come una lezione di comportamento linguistico. Con il “bullismo” linguistico (per esempio di Fanny Dashwood e di Lucy Steele) si vincono alcune battaglie verbali, ma alla fine l’equilibrio di Elinor tra parola e silenzio le fa ottenere quello che desidera. Come stratega dell’equilibrio, Elinor alla fine vince la guerra.
È interessante notare che il fatto stesso di scrivere romanzi in quell’epoca rivela il personale potenziamento di sé che Austen ottiene attraverso il linguaggio. In un ambiente letterario in cui la maggior parte delle autrici sceglieva uno pseudonimo maschile per arrivare alla pubblicazione, le tattiche di Austen sono simili a quelle dei suoi personaggi femminili. Assegnando una voce a se stessa, ella esercita il proprio potere linguistico ed espressivo.
Nello specifico, Austen ricorre all’ironia per maneggiare il potere del linguaggio. L’ironia è una forma di equilibrio tra silenzio e parola; il lettore comprende un significato più profondo dietro il linguaggio, che invece il personaggio non percepisce. Una ragione per cui le opere di Austen sono ancora lette così diffusamente è che l’ironia in effetti conferisce potere al lettore. Per esempio, a un certo punto Miss Steele dichiara: “Direi che l’innamorato di Lucy è modesto e beneducato quanto quello di Miss Dashwood”. Il lettore sa che gli innamorati di Lucy e di Miss Dashwood sono la stessa persona – Edward Ferrars – ma Miss Steele lo ignora. Austen accorda un privilegio al lettore per mezzo dell’ironia, creando un’esperienza di lettura più ricca e più profonda. Anche la sintassi riflette direttamente l’argomento di cui Austen scrive – la sottile manipolazione del potere attraverso il silenzio e la parola.
La scena che segue dimostra perfettamente la nostra teoria. Lucy, scoprendo che Elinor si trova ancora a Londra, le ricorda che aveva avuto intenzione di fermarsi solo un mese, dicendo: “Sono sorpresa e felice che non abbiate mantenuto la vostra parola”. Elinor capisce Lucy e usa “tutto il suo autocontrollo per far sembrare di no”. In questo frangente linguistico sono in gioco diverse tecniche letterarie. Prima di tutto, Lucy usa il linguaggio per far vergognare Elinor, che è un comune “strumento post-illuminista di controllo sociale” (Gordon Hirsch, “Shame, Pride, and Prejudice: Jane Austen’s Psychological Sophistication”, Mosaic, 25.1, 1992). Tuttavia, Elinor ricorre alla sua strategia difensiva di silenzio mantenendo il dominio sulla conversazione. Quando Lucy “ritorna alla carica, dopo una cessazione delle allusioni ostili”, Elinor risponde ancora una volta tacendo, e decidendo che non “la asseconderà con una ulteriore opposizione”. Il risultato è proprio quello che Miss Dashwood si aspetta: per una volta, è Lucy a restare in silenzio.
In questo brano, oltre all’uso del linguaggio da parte dei personaggi, assistiamo anche ai giochi linguistici di Austen. L’espressione “la vostra parola” è qui significativa per diversi motivi. Il mantenere le promesse è un tema predominante nel romanzo. Lucy accusa Elinor di non aver mantenuto la propria parola, quando, ironicamente, Elinor sta soffrendo precisamente perché sta rispettando la promessa di proteggere il segreto di Lucy. Inoltre, la lealtà di Elinor è parallela all’intenzione di Edward di mantenere la sua parola e di sposare Lucy. Il brano diventa ancora più profondamente ironico se considerato in retrospettiva – è Lucy a rimangiarsi la parola: benché fidanzata con Edward, sposa invece suo fratello. E questo avviene dopo che lei ha risolutamente sottolineato l’impegno che il giovane ha preso nei suoi confronti. Il suo linguaggio le si ritorce contro e la fa apparire come una sciocca. Il geniale controllo del linguaggio di Austen in questa scena è un microcosmo dei suoi strategici usi della parola e delle implicazioni delle scelte lessicali nel romanzo in generale.
Come abbiamo visto, in Ragione e sentimento Austen sottolinea le forze e le debolezze dell’essere umano attraverso l’uso della parola e del silenzio come ambito in cui contendere le relazioni di potere. Tuttavia, la stessa autrice ingaggia la propria personale battaglia linguistica per il potere attraverso i commenti critici sui pericoli degli eccessi comunicativi, e sulla definitiva autorità guadagnata grazia all’equilibrio e all’autocontrollo. Austen avvisa i lettori che solo coloro che mantengono una posatezza espressiva faranno sentire la loro voce. Come apprendiamo grazie a Elinor, nel campo di battaglia domestico rappresentato dal salotto, persino chi non dispone della tradizionale artiglieria “maschile” può vincere la guerra, quando sa gestire le proprie armi con maggiore astuzia.
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4 commenti
Immagino che il mio commento sarà impopolare ma non mi trovo particolarmente d’accordo sulle conclusioni che vengono tratte in questo -godibile e ben scritto – articolo.
E’ senz’altro condivisibile l’affermazione principale, relativa all’idiosincrasia della Austen per gli “estremismi” comunicativi, così come per gli estremismi caratteriali (Mary Bennet, tanto per citare un esempio di virtù femminile svilita dall’estremismo e non temperata dal buon senso) e, in generale, per ogni eccesso.
Meno condivisibili – nella mia umilissima opinione – le affermazioni specifiche sull’uso dei silenzi di Elinor e sull’ironia.
Mrs Steele sa benissimo che i due Beau sono la stessa persona (Sir John lo ha detto esplicitamente a Miss Steele nel capitolo 21)) e s’illude di essere allusiva e divertente, salvo poi essere – come al solito- tacitata dalla furba Lucy. C’è evidentemente dell’ironia, in questo passaggio, ma è quella, più sottile, tutta a spese di Nancy, incapace di capire che esponendo Elinor rischia di rivelare troppo di Lucy. Questo passaggio apre un sipario sul rapporto – privato e taciuto – fra le due signorine Steele, sulle malignità che avranno fra loro mille e mille volte bisbigliato sul conto di Elinor, sulla pochezza – molte volte ribadita – dei loro principi.
E, ancor più – tocco magistrale – si ironizza sul fatto che nessuno ascolta veramente Mrs Steele, nessuno dà alcun peso alle sue parole o quella gran volpona di Mrs Jennungs avrebbe intuito tutto dalla battuta di Nancy, se si fosse presa il disturbo di ascoltarla.
E ancora i silenzi di Elinor, solo talvolta sono parte di un reale, consapevole conflitto verbale, spesso rispondono – ma anche qui siamo solo nel regno delle opinioni – alla banale esigenza di contenersi e mordersi la lingua, al desiderio di non dare soddisfazione all’interlocutrice o anche – come ad esempio nel momento della fatale rivelazione di Lucy – più all’incredulità e all’eccesso di buona educazione che a una reazione calcolata.
Con ciò apro e chiudo il sipario sul fatto che le sorelle Dashwood, entrambe protagoniste alla pari (non come Lizzie che ruba a Jane tutta la scena e alle minori lascia solo briciole), sono parimenti apprezzate e disprezzate per le opposte doti e difetti laddove le une soccombono agli eccessi degli altri, sicché la temperanza di Elinor (persino il suo innamorato la riduce a una meschina “general civility” nel capitolo 17), in più punti è da biasimare quanto l’eccesso di slancio emotivo di Marianne.
Vero è che il silenzio è uno strumento importante di disputa, nel femminile e ovattato regency, vero è però che non è minimamente grazie alle sue doti che Elinor conquista la felicità bensì – al contrario – deve ogni bene alle cattive qualità di Lucy, che non conoscono limiti e creano l’impossibile disegno della liberazione di Edward.
Persino il divertentissimo finale, trionfo d’ironia sociale, in cui quelle stesse cattive qualità le valgono il perdono e le preferenze di Mrs Ferrars, sembrano ribadire che sì, certo, la posata Elinor ha saggiamente e prudentemente sconfitto la sua avversaria su ogni terreno, dalla moralità, alla cultura alla conversazione, ma non esce comunque vincitrice proprio per il silenzio che la dignità le impone di mantenere senza cioè svendersi con ipocrita umiltà alla benevolenza della suocera.
Non me ne voglia Miss Dinkler, ma trovo che la sua Elinor sia troppo idealizzata e questo le faccia perdere quei tratti adorabili di umanità che Jane le ha regalato.
Un ottimo esempio di come si possano interpretare in modo diverso alcuni particolari.
Un altro punto di Ragione e sentimento che si presta, e si è prestato, a interpretazioni diverse è la parte finale dedicata al matrimonio di Marianne con il colonnello Brandon. C’è chi ha messo più in evidenza il brano:
“Marianne could never love by halves; and her whole heart became, in time, as much devoted to her husband, as it had once been to Willoughby. – Marianne non avrebbe mai potuto amare a metà; e divenne con tutto il cuore, col tempo, devota al marito come lo era stata una volta a Willoughby.”
per sottolineare come Marianne rimanga in fin dei conti la ragazza passionale del passato, e chi invece ne ritiene più significativo un altro:
“to see Marianne settled at the mansion-house was equally the wish of Edward and Elinor. They each felt his sorrows, and their own obligations, and Marianne, by general consent, was to be the reward of all. – vedere Marianne sistemata nella casa padronale era anche il desiderio di Edward ed Elinor. Conoscevano entrambi le sofferenze del colonnello, e i loro obblighi verso di lui, e Marianne, per opinione unanime, doveva essere la ricompensa di tutto.”
un brano che sottolinea con cruda razionalità una sorta di “scambio” che ha poco a che fare con il “sentimento” e molto con la “ragione”. In questa ottica, il brano sull’amore di Marianne per il colonnello (attenzione però: “in time – col tempo”) sembra un po’ come uno zuccherino che va ad addolcire la secca considerazione utilitaristica di quella “ricompensa”.
Confesso che proprio quei passaggi, sui diversi significati del gran finale di S&S li ho riletti molte e molte volte, in italiano e in originale (niente è più gustoso della traduzione a fronte).
Alla fine mi sono convinta che entrambe le interpretazioni di Ierolli (a proposito, grazie per aver reso giustizia alla grandezza dei salotti all’ingresso del Barton cottage!) sono corrette e la loro dualità esprime i due mondi, quello pubblico e quello privato, che si sovrappongono continuamente, in un ricco gioco di velature, in tutti i romanzi della Austen.
In privato, qualsiasi fossero i termini del “contratto” matrimoniale o l’affettuoso ma deciso “complotto” (confederacy against her) affinché lo contraesse, la romantica Marianne, dantescamente, non può fare a meno di amare per il solo fatto d’essere amata.
In pubblico, con quella crudezza molto sottile che si abbina spesso al lato più freddo e ieratico del decoro – e che domina piuttosto in Mansfield Park – Brandon viene “ripagato” della sua devozione, dei suoi “favori” e delle sue pene lontane e vicine nel tempo e Marianne è pedina, molto prosaica e molto umanamente mossa sulla scacchiera, del destino.
In effetti quei due brani finali non fanno che confermare l’alternanza, e l’indispensabile compresenza, di “sense” e “sensibility”, naturalmente non solo nel romanzo che li ha nel titolo.
Per i salotti: grazie di averlo notato!