Cittadini del mondo: visioni contemporanee dei personaggi di Jane Austen

La critica letteraria contemporanea ha spesso affrontato le storie di Jane Austen da un punto di vista “esterno” rispetto allo svolgimento specifico della narrazione, ai personaggi e alla socialità, che secondo la tradizione sono i punti di forza delle sue opere. Recentemente, uno dei principali argomenti di studio è stato quello della rappresentazione, certo celata e indiretta, dei rapporti tra culture diverse, che ad uno sguardo attento riesce ad emergere tra le fitte maglie delle trame austeniane.

L’esempio più eclatante di questa rappresentazione è senz’altro Mansfield Park, un libro che si distanzia considerevolmente, sia per i contenuti che per lo stile, dagli altri cinque romanzi canonici. I toni di Mansfield Park sono infatti meno brillanti, la caratteristica dell’ironia è quasi del tutto assente, e la protagonista, Fanny Price, è un personaggio che con la sua malinconia e i suoi lunghi silenzi risulta molto diversa dalla briosa Lizzy Bennet o dall’elegante Emma. Mansfield Park è una storia ricca di ombre, in cui le figure dei villain (entrambi i fratelli Crawford possono essere considerati tali) sono meno definite, più ambigue, più sottili e forse ancora più pericolose dei vari Willoughby, Wickham e Thorpe. Ma l’aspetto più particolare di questo romanzo è il fatto che qui Austen – consapevolmente o no – pone all’attenzione del lettore degli inquietanti interrogativi sulle origini delle ricchezze della famiglia che è oggetto del racconto. Siamo informati del fatto che Sir Thomas Bertram conta su una rendita cospicua, e che per quanto parte di essa sia il risultato dell’attività agricola sui terreni di Mansfield, la sua porzione più consistente dipende dallo sfruttamento di piantagioni a canna da zucchero nella lontana Antigua.

La recente critica postcoloniale ha trattato estesamente la questione dell’imperialismo espressa non esplicitamente, ma facilmente intuibile, in Mansfield Park: trattano l’argomento, ad esempio, Culture and Imperialism (“Cultura e imperialismo”) di Edward W. Said, e il suo saggio “Jane Austen and Empire” (“Jane Austen e l’impero”), ripreso da Susan Fraiman in “Jane Austen and Edward Said: Gender, Culture and Imperialism” (“Jane Austen ed Edward Said: genere, cultura e imperialismo”); A Reading of Mansfield Park (“Una lettura di Mansfield Park”) di Avrom Fleishman; “‘That Abominable Traffic’: Mansfield Park and the Dynamics of Slavery” (“‘Quel traffico abominevole’: Mansfield Park e le dinamiche della schiavitù”) di Joseph Lew; “The Shadow behind the Country House: West Indian Slavery and Female Virtue in Mansfield Park” (“L’ombra dietro la dimora di campagna: la schiavitù nelle indie occidentali e la virtù femminile in Mansfield Park”) di Maaja Stewart; “Domestic Retrenchment and Imperial Expansion: The Property Plots of Mansfield Park” (“Chiusura domestica ed espansione imperialista: i temi della proprietà in Mansfield Park”) di Clara Tuite; “Decolonising Mansfield Park” (“Decolonizzare Mansfield Park”) di John Wiltshire.Edward W. Said, in particolare, afferma che “i Bertram non sarebbero potuti esistere senza la schiavitù, lo zucchero e la classe sociale degli sfruttatori delle colonie” (p. 112); e infatti, quando Sir Thomas rientra da Antigua dopo un’assenza di due anni (cap. XXI), è ansioso di descrivere alla famiglia proprio quali siano le condizioni nelle quali si vive e si lavora nelle sue piantagioni. Fanny sembra in realtà l’unica ad interessarsi ai suoi resoconti, come emerge dal dialogo con Edmund il giorno dopo:

“Non mi hai sentita, ieri sera, fargli domande sulla tratta degli schiavi?”
“Ti ho sentita, e ho sperato che l’argomento fosse portato avanti dagli altri.
[…]
“E io desideravo tanto farlo, ma vi era un tale silenzio!”

Questo “silenzio” è la metafora di una più estesa reticenza a parlare della questione delle ricchezze dei Bertram. Non conosciamo chiaramente le opinioni di Austen a proposito della tratta degli schiavi; da alcune lettere deduciamo che ella era interessata all’argomento e che lesse History of the Rise, Progress, and Accomplishment of the Abolition of the African Slave Trade by British Parliament (1808) di Thomas Clarkson (“Storia della nascita, dello sviluppo e dell’abolizione della schiavitù africana da parte del Parlamento britannico”) e An Essay on the Military Police and Institutions of the British Empire di Charles Pasley (“Saggio sulla politica militare e le istituzioni dell’impero britannico”), ma non veniamo messi a parte delle sue personali posizioni in merito.

Di Mansfield Park sono stati tratti fino ad oggi uno sceneggiato della bbc (1983), un adattamento televisivo andato in onda su itv nel 2007 e una sola trasposizione cinematografica, che è oggetto di questo articolo, e che si concentra palesemente proprio sulle istanze imperialiste trattate dai lavori critici summenzionati. A tale proposito, numerose scene sono aggiunte alla trama originale, affinché la trattazione del tema appaia evidente e inequivocabile per qualunque spettatore. Il film, diretto da Patricia Rozema per Miramax e uscito nel 1999, schiera Frances O’Connors nel ruolo di Fanny, Jonny Lee Miller in quello di Edmund, Alessandro Nivola per Henry Crawford e Harold Pinter nei panni di Sir Thomas, e sin dal principio dimostra la chiara intenzione di analizzare la storia di Mansfield Park dal punto di vista del conflitto etnico/razziale e della sua tragica conseguenza politica: il colonialismo.

Al minuto 4:10 si vede Fanny all’età di dieci anni, mentre viene condotta, sola, dalla sua casa di Portsmouth verso il Northamptonshire, dov’è collocata la casa degli zii Bertram. Mentre la strada ancora costeggia il mare, Fanny sente dei canti provenire da una nave ancorata nella piccola baia sottostante. Incuriosita, chiede al cocchiere di cosa si tratti, ed egli risponde: “è una nave negriera – schiavi”. La bambina appare colpita dalla notizia, e l’espressione del suo viso rivela solo l’anticipazione del messaggio che il film esplorerà attentamente fino alla fine.

Al minuto 15:28 Fanny è già adolescente, e per la prima volta assistiamo ad una sua conversazione con Edmund a proposito della provenienza delle ricchezze dei Bertram. Edmund le spiega che il padre è dovuto partire per Antigua a causa di “alcuni problemi con gli schiavi nelle piantagioni” e Fanny, che scopriremo più avanti essere una lettrice di testi di argomento politico (nella fattispecie, proprio il testo di Thomas Clarkson sull’abolizionismo), ribatte: “L’abolizionismo è una cosa buona, no?” rivelando chiaramente intenzioni cui Jane Austen in realtà mai diede voce. La quieta risposta di Edmund, che palesa la contraddizione morale esistente tra la sua accettazione delle circostanze e le sue ambizioni da ministro ecclesiastico, è: “Tutti noi viviamo dei suoi proventi, Fanny. Anche tu”.

La Mansfield Park in cui è ambientato il film è infatti ricca di oggetti che ricordano l’origine di tanta opulenza: in particolare, lo studio di Sir Bertram, il luogo inaccessibile a Fanny che poi i giovani di casa violano organizzandovi la recita di Lovers’ Vows (32:21; in quell’occasione notiamo velocemente che Tom Bertram si è dipinto il volto di nero), presenta una grande mappa di Antigua appesa alla parete, molti trofei di caccia che allegorizzano l’attitudine predatoria del padrone di casa, strumenti musicali (percussioni) che suggeriscono facilmente un’origine africana o caraibica, la scultura di un volto dai tratti africani, probabilmente di uno schiavo. Nella serra di Mansfield Park si vede inoltre (24:00) una statua forse d’ebano che rappresenta un servitore dalla pelle scura.

Al ritorno di Sir Thomas da Antigua avviene la conversazione tra lui e Fanny che nel romanzo Austen sceglie di non trascrivere, ma di riportare indirettamente e a distanza di una giornata. Il silenzio della scrittrice è sostituito da una netta esplicitazione da parte della regista, che ricorre a battute assenti nel testo originale. Sir Thomas descrive gli schiavi come “ben fatti, e specialmente le donne […] sono belle e aggraziate nei movimenti”. E aggiunge: “due mulatti non possono avere figli, sono come i muli”. Queste parole rivelano un aspetto di Sir Thomas piuttosto distante dalla descrizione che di lui fa Austen: un morboso interessamento alla corporeità femminile, confermato da sguardi ambigui che lo qualificano come il tipo del colonialista lussurioso. Alla protesta di Edmund, incoraggiata da un’occhiata di Fanny: “questa è un’assurdità, padre. Non potete dire una cosa simile”, Sir Thomas ribadisce: “Non ho detto che sono muli, ho detto che sono come i muli”.

Da questo momento in poi, proprio a causa delle nuove attenzioni che Sir Thomas inizia a riservare a Fanny, è l’eroina stessa ad assumere i tratti di una figura schiavizzata. Nella cornice di Mansfield Park, che rappresenta il potere e il dominio, Fanny è colei che arriva “da fuori” – non a caso da una città di mare, che con il suo porto costituisce una sottile linea di confine tra l’Inghilterra e le sue colonie. È arrivata da bambina con il preciso ordine di fare da serva a Lady Bertram e viene subito descritta come inferiore rispetto a Maria e a Julia. Quando Sir Bertram, dopo averla trovata cresciuta e più interessante (il suo sguardo concupiscente è più espressivo di qualsiasi battuta), organizza un ballo in suo onore, Fanny si lamenta con Edmund poiché “Sarò venduta come uno degli schiavi di tuo padre!” (35:44). E più tardi, dopo che ella ha rifiutato la proposta di matrimonio di Henry Crawford e Sir Bertram, infuriato per non essere stato obbedito, la rimanda a Portsmouth, ella afferma che lì si sentirà finalmente “uguale a coloro che mi circondano” (58:20).

Fanny diventa qui l’incarnazione della “fanciulla in pericolo” tipica del romanzo gotico, poiché è concupita da un uomo di potere ed è poi addirittura assediata dalle attenzioni di un libertino (come ella stessa lo definisce) che è, naturalmente, Henry Crawford. Una scena (38:00) recitata da Frances O’ Connors e Alessandro Nivola nella biblioteca di Mansfield Park, è fortemente suggestiva a proposito di questi temi. Fanny si trova lì sola a leggere il Viaggio sentimentale di Sterne, e viene interrotta, con suo evidente fastidio, dall’ingresso di Crawford. L’ospite le si avvicina e chiede di leggere per lei: il brano riporta l’episodio dell’incontro del narratore con un uccellino in gabbia, che chiede di poter essere liberato, ma la voce narrante dichiara di non poterlo aiutare. Le parole “non posso uscire” si ripetono sempre più addolorate nella lettura di Crawford, e il volto di Fanny mentre le ascolta rivela inequivocabilmente il suo immedesimarsi con la creatura prigioniera del racconto (il collegamento tra figura femminile, animaletti in gabbia e schiavitù è ricorrente in molta scrittura femminile del diciottesimo secolo; è interessante ricordare che nel libro la protagonista di questo episodio non è Fanny ma Maria, anche lei evidentemente “vittima” di uno stato di prigionia dal quale tenterà di uscire verso la fine della vicenda).

La scena che segna, da parte della regista, il culmine del riadattamento del romanzo di Austen ai fini di una rappresentazione delle istanze coloniali inizia al minuto 84:05. Fanny ha ripreso il suo posto a servizio della famiglia Bertram, convocata d’urgenza a Mansfield Park per prendersi cura di Tom, preda di una febbre fortissima e in pericolo di vita. Nella notte in cui la malattia si aggrava, Fanny scopre dei disegni di Tom che rappresentano tutto l’orrore dello sfruttamento in opera nelle colonie: sono disegni scabrosi, che riproducono stupri, torture, crocifissioni e fustigazioni. Protagonista di due di questi disegni è Sir Bertram, ritratto mentre usa violenza su una schiava e frusta uno schiavo.

Raggiunto questo clamoroso climax, la narrazione di Patricia Rozema si riassesta su toni più sobri, riadeguandosi allo stile del romanzo. La guarigione del primogenito trasforma Sir Bertram in un marito e padre più affettuoso e le scene finali recuperano il gusto dell’ironia così caratteristico della narrativa austeniana. Per lo spettatore è tuttavia difficile dimenticare le vicende rappresentate in precedenza, e anche di fronte all’idillio messo in scena a chiusura del film (coronato dalla sospirata unione tra Fanny ed Edmund), il messaggio di violenza e prevaricazione resiste quale aspetto dominante dell’intera trasposizione.

Anche altri romanzi di Jane Austen sono stati oggetto di adattamenti che ne hanno ipotizzato e evidenziato (anche se marginalmente) la presenza di un conflitto sociale tra gli “inglesi” e gli “stranieri”. È il caso di uno specifico episodio di Emma (vol. III, cap. 3), e in particolare di quando Harriet viene aggredita dagli zingari (a party of gipsies, scrive Austen) durante una sua passeggiata nei dintorni di Highbury. Le tre versioni – del 1996 (il film TV diretto da Diarmuid Laurence e il film diretto da Douglas McGrath per Miramax) e del 2009 (la serie TV della BBC diretta da Jim O’Hanlon) – aggiungono una certa violenza al racconto originale del fatto. In tutte e tre le versioni Harriet non è “inseguita, o piuttosto circondata” (come racconta l’autrice), ma anche gettata a terra dagli zingari. Considerando il tono prevalentemente ironico del romanzo, l’interpretazione più inquietante è quella di McGrath, dove Harriet passeggia insieme alla stessa Emma (e non con Miss Bickerton, come nel libro); in questo caso la “banda” è formata non solo da donne e bambini, ma anche da uomini adulti, cosa che conferisce all’episodio anche un senso di minaccia sessuale (nel film essi tentano di stracciare il vestito di Harriet).

Particolarmente interessante è poi la rappresentazione della varietà dei colori del mondo nelle varie trasposizioni di Orgoglio e pregiudizio. In Matrimoni e pregiudizi (Bride and Prejudice, diretto da Gurinder Chadha, Miramax, 2004), tutta la storia è trasportata in India, in un brillante prodotto bollywoodiano fatto di vesti scintillanti, paesaggi traboccanti di vitalità e di profumi, musiche travolgenti. Lo sguardo di velluto blu di Aishwarya Rai (Lalita) non può certo assomigliare agli “occhi neri” del suo prototipo, Lizzy Bennet, ma riesce comunque ad avvincere il cuore di (Will) Darcy.

Uno straordinario esperimento dei nostri giorni è inoltre la serie web (in forma di “video-blog” o “vlog”) The Lizzie Bennet Diaries, la cui amministratrice, una studentessa universitaria della California, racconta le vicende della propria vita con costanti riferimenti a Orgoglio e pregiudizio; l’aspetto interessante per questo articolo è che la sua migliore amica, Charlotte Lu, è una bellissima ragazza dai lineamenti orientali.

Voglio aggiungere infine un ultimo riferimento, tratto dall’ultimo saggio di Susannah Fullerton, pubblicato lo scorso gennaio, Happily Ever After. Celebrating Jane Austen’s Pride and Prejudice (“Per sempre felici e contenti. Celebrando Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen”). Qui si legge: “Nel 2008 la televisione israeliana ha prodotto una miniserie in sei parti di un adattamento di O&P ambientato in Galilea nel XXI secolo. Irit Linor ha completato una traduzione in ebraico del romanzo prima di scrivere la sceneggiatura. Il suo Mr Darcy moderno (interpretato da Nimrod Artzi) lavora in un’industria dell’alta tecnologia, con uno stipendio altissimo. Egli si sposta verso nord con il suo amico Ben Gal e le loro sorelle, e lì incontra Anat e Alona, due donne divorziate sulla trentina. Alona (Elizabeth) ha anche un figlio adolescente. […] La serie non è in commercio, ma […] c’è una clip su Youtube, all’indirizzo: http://www.youtube.com/watch?v=jX0CJAJ2YcY. Se si dovesse giudicare solo da questo spezzone, vi compare una magnifica Mrs Bennet”.

Ritrovare dentro storie scritte duecento anni fa tanti e variegati spunti per un’analisi della società contemporanea non è che l’ennesima conferma di quanto i romanzi di Jane Austen possano, e debbano, essere considerati classici immortali della letteratura.

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4 commenti

  1. Jane Austen ha il pregio di conferire un’accezione positiva anche alla globalizzazione che innesca con il suo linguaggio universale.

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